Maledetto Yoast. Sì, sicuramente anche tu conosci il plugin Yoast SEO, e molto probabilmente anche tu ti sei già confrontato con i suoi bollini rossi e verdi, che promettono a qualsiasi utente di scrivere dei contenuti per il web perfettamente ottimizzati per i motori di ricerca.
Sono tanti i suggerimenti di SEO copywriting che Yoast dispensa all’utente, dalla lunghezza del Title Tag alla presenza della keyword negli heading. E fin qui, tutto bene: del resto, queste indicazioni talvolta possono aiutare anche gli esperti, per controllare, una volta inserito l’articolo, se tutto è al posto giusto. Il problema è che qualcuno, lì fuori, è convinto che le indicazioni di Yoast corrispondano a dei comandamenti, come se questo plugin avesse in mano le chiavi del paradiso dei SEO, ovvero delle prime posizioni della SERP di Google. E queste persone, tendenzialmente, si impuntano su un particolare consiglio di Yoast: la densità delle parole chiave. Apriti cielo.
Perché oggi parlo proprio della densità delle parole chiave? Ti dirò, è tutta colpa – o è tutto merito – di un mio nuovo cliente. Oggi, durante una telefonata in cui abbiamo parlato dei primi articoli per il suo blog aziendale, se n’è saltato fuori con «ehi, in questo articolo la densità delle parole chiave è inferiore allo 0,5%: cosa perdindirindina è successo?». Ecco, non so se le sue parole siano state esattamente queste. Ti posso però assicurare che, dal tono usato, il mio interlocutore risultava punto sul vivo, laddove fino a un attimo prima era il più soddisfatto e pacioso dei clienti. Il fatto è semplice: guardando distrattamente l’interfaccia di WordPress durante la nostra conversazione, il suo occhio è caduto sul bollino non-verde di Yoast SEO, il quale segnalava una densità della parola chiave al di sotto della percentuale consigliata.
Non voglio certo dire che rispettare i canoni proposti da questo plugin sia sempre un’assurdità: nossignore. Anzi, nella maggior parte dei casi è del tutto naturale ripetere la stessa parola chiave per decine (e decine) di volte in un testo più o meno lungo, perché è proprio l’argomentazione stessa a richiederlo. In questo articolo, dedicato per l’appunto alla ‘keyword density’, ovvero alla frequenza di utilizzo di una data keyword all’interno di un testo, sarà del tutto naturale trovarsi a ripetere molte volte il termine ‘densità delle parole chiave’, senza peraltro forzare la mano.
Altre volte, però, le ripetizioni risultano del tutto inutili nell’economia di un discorso, e anzi, finiscono talvolta per essere dannose. E così, per inseguire in modo testardo i dettami di Yoast, si arriva a molestare vergognosamente dei testi. La lettura diviene così difficoltosa e spiacevole, con la naturalezza del testo sacrificata di fronte al – supposto – altare della SEO. Non solo: una costruzione troppo macchinosa e reiterata del testo fa capire anche al più sprovveduto dei lettori che, sotto sotto, gatta ci cova. E si sa, ai lettori proprio non piace d’esser trattati da babbei.
Nel caso specifico del testo sottoposto al mio cliente, ottimizzato per una long tail keyword composta da 7 parole, raggiungere una keyword density con exact match dello 0,5% sarebbe stato a dir poco rischioso, e sicuramente sospetto. Come ripetere per ben 15 volte la frase ‘detergente naturale atossico per scarpe di pelle’ (sto inventando) in un articolo di 3.000 parole, senza apparire almeno un po’ artificiosi? In un testo fatto bene, e scritto guardando non alla densità delle parole chiave, quanto invece alle esigenze degli utenti, sarà molto più probabile trovare delle abbreviazioni, come ‘detergente naturale’ o ‘detergente per scarpe di pelle’, o ancora, dei sinonimi, come ‘smacchiante per calzature’ o ‘smacchiante per pelle’.
Il problema è che questo pensiero, se messo di fronte al pallino rosso pompeiano (o carminio?) di Yoast, sembra ai più un’opinione, una supposizione poco fondata, e niente più. Ma non è così: checché suggerisca Yoast, va sottolineato il fatto che Google ha superato la densità delle parole chiave già da molti anni. E non ci sono motivi di credere il contrario.
Perché non ha più senso parlare di densità delle parole chiave
È naturale: nel momento in cui si dice a qualcuno che una buona regola del copywriting SEO è quella di inserire per un numero sufficiente di volte la parola chiave in un testo, quell’altro non potrà che domandare: sì, ma quante volte devo ripetere quella parola chiave nel testo? 10 volte? 5 volte ogni 500 parole? A ogni nuovo paragrafo? Tante volte quante sono le vocali presenti nel titolo? Non esiste una risposta. Di più: non esisteva una risposta precisa prima del 2011, quando poteva avere senso parlare di un’ideale densità delle parole chiave, e non esiste di certo adesso.
Ma perché ho parlato proprio del 2011? Lo sanno fin troppo bene i consulenti SEO: quello è l’anno di introduzione di Google Panda, algoritmo che ha dato una prima sonora bastonata ai contenuti web di qualità infima. Proprio così. A partire da quell’anno, il motore di ricerca per antonomasia ha iniziato a penalizzare tutti i testi in cui il keyword stuffing – ovvero la ripetizione compulsiva e perniciosa di una stessa parola chiave – risultava palese. Da lì in poi gli sforzi di Google per garantire ai propri utenti delle risorse utili, originali e scritte appositamente per loro – e non per soddisfare degli algoritmi ormai in pensione – sono continuati imperterriti. Oggi, dopo Panda, Hummingbird e RankBrain, siamo arrivati in un punto in cui, per assurdo, Google è capace di restituirci come primo tra i risultati di ricerca un sito che non contiene nemmeno la query inserita dell’utente.
Ecco quanto conta oggi la densità delle parole chiave: siamo arrivati alla situazione in cui, utilizzando la cronologia delle ricerche precedenti, la localizzazione, i trend del momento e tanti altri elementi, Google ci può restituire dei risultati utili e del tutto coerenti con i nostri intenti di ricerca, senza che questi contengano il termine di ricerca che abbiamo digitato sulla sua barra. Tornate indietro nel tempo e ditelo a un SEO dei primi anni 2000, e vedrete nascere il terrore nei suoi occhi.
Come la mettiamo, dunque, con le keyword e con la frequenza di utilizzo all’interno di un testo? Il consiglio più prezioso arriva da Matt Cutts. Qualche anno fa, quando era ancora a capo del team anti-spam di Google, Matt spiegò che sì, la parola chiave è ancora un fattore SEO estremamente importante. Questo significa che Google riconosce una grande importanza al fatto che noi nominiamo una data parola chiave: il fatto che quel termine sia presente nel testo fa capire al motore di ricerca che sì, probabilmente stiamo parlando proprio di quello. Usiamo un’altra volta quel termine? Ebbene, Google avrà una conferma che il nostro testo gira intorno a quello specifico argomento. Scriviamo una terza, una quarta volta quel termine? Matt ci dice che queste successive ripetizioni non importeranno più di tanto a Google, il quale di fatto – con le primissime duplicazioni – ha già tutto il necessario per capire il contenuto reale di quella pagina. E anzi, non è tutto qui: è probabile che, all’ennesima ripetizione, il motore di ricerca inizi a storcere il naso, sentendo puzza di keyword stuffing.
Vuoi ripetere due, tre, quattro volte una parola chiave? Sicuramente aiuta, e anzi, sei invitato a farlo, soprattutto in testi non stroppo stringati. Puoi farlo anche una quinta o una sesta volta, pur sapendo che l’incremento di valore agli occhi di Google sarà minimo, e ridurrà di volta in volta. Fino al momento in cui la scorrevolezza e la naturalità del testo saranno compromesse: da lì in poi l’apprezzamento di Google non potrà che diminuire in modo drastico.
Conclusione
Riassumendo quanto detto, in che modo bisogna comportarsi con queste keyword? Non esiste una regola precisa: l’importante, anche questa volta, è scrivere pensando ai lettori. Del resto è proprio questo che Google ci chiede di fare. Lui non cerca un numero minimo di ripetizioni di una parola chiave, non richiede un exact match delle keyword, e come i nostri stessi utenti, apprezza i sinonimi.